Tracce di monachesimo italo-greco a Laurignano

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             Nei decenni successivi all'editto di Leone III l’Isaurico (726 d.C.), che propugnava l’iconoclastia, cioè la istruzione delle immagini sacre, una moltitudine di asceti d'ispirazione basiliana[1] abbandonò le regioni siriache e della Palestina, l'Illirico, la Cappadocia, il Peloponneso, le pendici del Monte Athos, per riparare nelle regioni del Mezzogiorno d’Italia, in zone aspre e inospitali, con l’intento di estraniarsi dal mondo e vivere la pienezza del contatto con Dio. Nel sud della Calabria, il circondario delle Saline, Stilo, Bivongi, Gerace, Pentidattilo e lo stesso Aspromonte divennero centri di spiritualità di prim'ordine, mentre a nord della regione, tra il Mercure e il Lao, e nei territori di Laino, Rossano, Orsomarso, Lungro, questi monaci iconoduli dettero vita a quella che venne definita l'Eparchia del Mercurion[2]. San Nilo da Rossano, il cui bíos costituisce una fonte preziosa per cercare di penetrare nella temperie storica e religiosa della società coeva, fu indubbiamente la figura più rappresentativa di quel vasto movimento monacale italo-greco sviluppatosi in Calabria tra il IX e l’XI secolo. In questo stesso periodo, nell'alto Tirreno cosentino e nell’area del Pollino, al confine calabro-lucano, l'espansione monastica bizantina raggiunse il suo massimo fulgore. Negli scriptoria e officine mercuriensi, e nei cenobi disseminati in tutta la regione, i monaci amanuensi vergavano miniature, salteri, evangelarî, eucologî, codici liturgici, preziose opere di innografia, di arte calligrafica, ecc., custoditi in gran parte fuori dalla regione, negli scrigni di biblioteche e musei di mezzo mondo. Qualche sporadico lascito di quella straordinaria stagione culturale persiste ancora oggi nell'intera area (valga l'esempio del famoso Codex Purpureus Rossanensis, custodito a Rossano ma vergato forse lontano dalla Calabria). Cosenza e il suo circondario, all'inizio del X secolo (901-02), secondo il catalogo delle sedi ecclesiastiche contenute nel cosiddetto «Diatyposis di Leone VI», rientravano nella geografia ecclesiastica del tema di Calabria[3]. Al tentativo di "ellenizzazione" e consolidamento della Chiesa greca nel catepanato d'Italia la Santa Sede reagì energicamente. Nel 983, infatti, papa Benedetto VII elevò il vescovado longobardo di Salerno al rango di metropoli, assegnandogli come suffraganeo il vescovado di Cosenza, che dipendeva dalla metropolia di Reggio[4]. La Chiesa greca, dal canto suo, continuò la politica d’inquadramento religioso della popolazione dei tre temi: Cosenza venne elevata ad arcivescovado, dunque divenne autocefala[5]. Allo scoccare dell'anno Mille era questo, per grandi linee, lo scenario ecclesiastico della provincia cosentina. Con la conquista normanna della Calabria, nella seconda metà dell'XI secolo, e la conseguente “latinizzazione” del Mezzogiorno, il monachesimo greco fu avviato verso un lento e inesorabile declino, culminato con la sua scomparsa definitiva nella seconda metà del XV secolo. La testimonianza più eloquente e incisiva di questa parabola discendente è costituita dal Liber Visitationis di Atanasio Calceopulo, archimandrita del Patirion, il quale, il 1° ottobre 1457, su incarico di papa Callisto III, iniziò la ricognizione dei monasteri italo-greci sparsi nella regione riscontrandone il degrado morale, lo sfacelo economico e patrimoniale, la sistematica inosservanza dei dettami disciplinari cui i monaci superstiti si erano ormai abbandonati[6]. Nel comprensorio prossimo alla città bruzia, diversamente dai poli estremi della regione, il monachesimo bizantino non vi ha attecchito con altrettanto vigore. «Si direbbe che – scrive il Russo – malgrado la sua importante posizione sulla via Popilia e quindi passaggio obbligato per i monaci itineranti procedenti dal sud verso nord, nondimeno essa [Cosenza] è[ra] volutamente scansata. Centri monastici importanti si afferma[ro]no in tutta la Calabria (…) ma non Cosenza. (…) i monaci se ne tenevano lontano per il suo carattere di città eminentemente latina»[7]. La forte impronta latina dell’intera zona, aggiunge padre De Monte, «sconsigliava o impediva a quei cenobiti grecofoni di stabilirvi la loro fissa dimora. Per l’identico motivo fu poi agevole per i Normanni impiantare qui il monachesimo occidentale sul modello cluniacense prima, nella famosa badia della Matina, su quello cistercense più tardi, alla Sambucina»[8]. Per quanto riguarda Laurignano, al presente, non sappiamo se e in che misura il monachesimo bizantino abbia esercitato il suo influsso culturale sul nucleo demico di stanza sul territorio. Le fonti documentarie tacciono incredibilmente, e la dispersione o frammentarietà delle altre testimonianze, causata da incuria, spoliazioni, incendi, terremoti, fa il paio con quella damnatio memoriae a cui la cultura di matrice greco-orientale, in particolar modo quella religiosa, fu sottoposta all’indomani dello scisma con la Chiesa di Roma.
Ma la ricerca storica prevede una pluralità di metodi d'indagine. Nella toponomastica di derivazione agiografica, per esempio, che si occupa della denominazione dei luoghi mutuati da santi, chiese o icone, che nel territorio di Laurignano è  ben rappresentata, è possibile scorgere i segni di pratiche cultuali e presenze monastiche plurisecolari. Non a caso, ancora oggi, il contado è disseminato di toponimi derivati da santi di origine greca e venerati dalla Chiesa universale.
 Qui di seguito accenneremo a questi nomi di località, alle caratteristiche del territorio, alle scarne emergenze archeologiche ancora oggi rinvenibili in loco, nell'intento di fornire un supporto probativo ai numerosi indizi che fanno pensare ad un insediamento monastico di matrice grecanica nel contado laurignanese, in particolare nell'attuale zona di Piano Maggese, a ridosso del Busento. Prima di procedere con l’analisi degli indizi è forse utile ricordare che, probabilmente, la maggior parte di questi piccoli insediamenti monastici sparsi un po’ ovunque in Calabria sorsero sul finire del secolo X, in un clima politico e religioso propizio, auspicato da Niceforo II Foca con il nuovo assetto amministrativo ed ecclesiastico della provincia bizantina dell’Italia meridionale[9].
Vediamo ora questi indizi. 
La località S. Basilio – Il primo segno concreto che ci rinvia senza esitazioni al passaggio di monaci italo-greci sul territorio laurignanese (forse tra il IX e l’XI secolo) è la località denominata S. Basilio, ubicata nella vallata del Busento e attestata in un documento del 1592, rogato a Cosenza dal notaio De Luca. Nel manoscritto è documentata la donazione di un terreno in «loco ditto S.to Basilii», che il nobile Francesco De Ruggero, spinto da zelo e carità, fece a favore dei Conventuali di Castrovillari, per fondarvi ed erigervi, con l’aiuto di Dio, un monasterium dedicato a Santa Maria della Sanità[10]. La scarsità e la reticenza delle testimonianze disponibili non ci consentono di stabilire la sicura appartenenza del cenobio all'Ordo sancti Basilii. È probabile che il toponimo abbia assunto questa denominazione per la presenza in loco del culto e di un piccolo monastero eremitico fondato da monaci basiliani e intitolato al grande riformatore del monachesimo orientale. Del resto, chi altri e con quali diverse finalità può aver introdotto il nome e il culto di questa eminente figura della Chiesa greco-bizantina a Laurignano?
Che la presenza di un cenobio italo-greco nell’attuale zona di Piano Maggese non sia soltanto un'ipotesi vogliamo provarlo citando un secondo documento del 1592, rogato dal notaio cosentino Plantedi, il quale ci informa che il dominus laurignanese dell'epoca, Goffredo De Ruggero, cedette al monastero di S. Maria della Sanità un casalino scoperto in Laurignano, nella località detta Casa sottana[11]
 Se il toponimo S. Basilio designava l’intera zona, è probabile che Casa sottana indicasse il fazzoletto di terra dove insisteva l’antico e all’epoca abbandonato cenobio eremitico. Vi è da aggiungere inoltre che: a) l’ubicazione dei due edifici posti a poca distanza l'uno dall'altro, con il monastero francescano in posizione elevata e l'altro più in basso, in direzione del fiume; b) la presenza di labili tracce iconografiche ancora oggi visibili sui muri perimetrali e sulle pareti interne; c) la facciata principale del cenobio rivolta verso Oriente (il monaco bizantino celebrava sempre rivolto a Oriente[12]); d) l'inaccessibilità e la solitudine dei luoghi; e) i toponimi popolari «Turra e Santi» e «Turra e Monaci», pervenutici oralmente e utilizzati dai Laurignanesi per designare l'intera zona, sono tutti indizi che fanno pensare a due edifici religiosi adibiti al culto, fondati in epoche diverse e abitati da monaci cenobiti e frati conventuali. Nel mostrare la loro munificenza a favore dei francescani è probabile, altresì, che i De Ruggero abbiano volutamente prescelto un luogo e un immobile appartenuti in precedenza a religiosi.
Se del monastero francescano conosciamo come, da chi venne fondato e in quale epoca, del cenobio di probabile ascendenza bizantina non sappiamo nulla. In mancanza del typikòn, cioè del libro che conteneva l’atto di fondazione, l’elenco dei suoi beni, le regole liturgiche e disciplinari per ogni giorno; senza uno studio organico delle testimonianze iconografiche e archeologiche, non è possibile sapere nulla riguardo a queste e ad altre notizie. Non ci è dato sapere neppure quando la struttura fu abbandonata dai monaci italo-greci e se venne in seguito rilevata da altri monaci di rito latino. Ciò che possiamo affermare con sicurezza è che l'arrivo dei Normanni (XI sec.) favorì l'espansione dei possedimenti delle abbazie benedettine e cistercensi della Val di Crati, le quali, come vedremo, esercitarono la loro influenza anche nelle nostre contrade, attraverso l’acquisizione di proprietà terriere, la gestione dei mulini ad acqua lungo il Busento e favorendo il popolamento in quelle zone (es. l’attuale zona di Granci) un tempo dominate dal bosco e dall’incolto. Sul finire del Cinquecento, con l'insediamento dei Conventuali francescani e poi dei Riformati, del nome S. Basilio si è persa ogni traccia. L'antico cenobio basiliano, all'epoca dei francescani fatiscente e ormai abbandonato, venne riadattato nei secoli successivi e utilizzato come civile abitazione. Ancora oggi, infatti, vi dimora una famiglia di contadini.
La valle del Busento – La vallata del Busento, che separa i territori di Laurignano e Carolei, assai più impervia e inaccessibile rispetto a quella opposta dello Jassa – precocemente antropizzata e attraversata dalla via Popilia –, consentiva la segregazione dal secolo e il pieno esercizio della contemplazione mistica. Inoltre, si prestava benissimo ad accogliere piccole comunità monastiche che erano sì alla ricerca di silenzio e solitudine, smaniose di vivere al riparo dalle seduzioni del mondo, ma nondimeno mostravano attenzione verso il lavoro manuale: i monaci piantavano viti, curavano orti, costruivano magazzini per il raccolto stagionale, coltivavano il gelso e allevavano il filugello per la produzione serica. Non abbiamo prove che attestino la coltivazione del gelso e l’allevamento del baco da seta già in epoca bizantina. Diverso è il discorso per il periodo successivo, in particolare dal XVI secolo in poi, quando nelle fonti notarili riferite a Laurignano i richiami alle proprietà alberate con gelsi sono frequentissimi[13]. È probabile che questa attività, rimasta in vita fino agli anni '50-'60 del XX secolo, si sia protratta nelle nostre contrade sin dai primi secoli del secondo millennio. La località S. Basilio, lambita dal fiume e sepolta sul fondo dell'angusta valle, agli occhi di questi santi uomini dovette risultare ideale per menarvi vita eremitica. La zona denominata con il toponimo popolare Turra ‘e Santi si presenta ancora oggi come una landa desolata e inospitale, immersa nella natura selvaggia. Le attuali località di Granci, Piano Maggese, Piano della Corte, localizzate tutte in prossimità del Busento, come abbiamo visto in precedenza, erano coltivate dai monaci con l'ausilio dei contadini (rustici) del posto.
 
Gli stati monacali – Il crinale degradante verso il Busento presenta alcune escavazioni nella rupe (aggrottamenti), le quali, se non ad un insediamento rupestre vero e proprio, fanno pensare ad un loro utilizzo in ambito rurale. La povertà dello spazio architettonico interno, privo di giacitoi o di rialzi di terreno con la funzione di sedile o di tavola; la mancanza di qualsivoglia testimonianza documentaria, di corredo pittorico o di decorazioni parietali, di elementi di identificazione cultuale, confermerebbero questa ipotesi. Tuttavia, non possiamo escludere una destinazione d’uso diversa, considerato che la zona era frequentata da monaci anacoreti desiderosi di appartarsi e condurre vita solitaria. La compresenza nella zona di un cenobio, chiesa, oratorio o che dir si voglia – intitolato forse a S. Basilio – e di alcuni impianti grottali disseminati su tutto il fianco del crinale, potrebbe costituire un indizio significativo riguardo a pratiche monacali diffuse in Calabria, in particolare nei monasteri bizantini del Mercurion, riconducibili alla tripartizione classica – eremitico-anacoretico; eremitico-esicastico, cenobitico-lavriotico – desunta dagli antichi moduli monastici orientali e tramandatici dagli agiografi[14].
La toponomastica ci offre anche in questo caso qualche utile ragguaglio. Una località denominata Grotte, tramandatasi per secoli, figura ancora oggi nella toponomastica laurignanese. Il geonimo dialettale Grutta (o anche Grotta), infatti, risulta frequentemente attestato già nei Registri parrocchiali del ‘700. Nel 1724 Francesca Rizzo morì «in pago Hippolito Castilion Morello civitatis Consentia ubi dicitur la Grutta»[15]. Lo stesso anno il parroco Valentino registrò la morte di Francesca Rizzo in pago Filippo Castiglion Morelli «ubi dicitur la Grutta»[16]. Nel 1756 il parroco Oliveti annotò la morte del quarantenne Nicola Massaro e, l’anno dopo, quella di Serafino Dodaro e di Anna Ferraro, presso la Grotta[17].
 Il monaco viveva godendo la solitudine della grotta senz’altro interlocutore all’infuori di Dio[18]; viveva esercitando le virtù nel ritiro e nella solitudine e dipendeva dall’autorità di un capo (igumeno); incontrava i confratelli eremiti nella chiesetta comune, al centro della laura per celebrarvi gli uffici divini[19]. I monaci che abitavano nelle laure praticavano l’hesychia (la pace contemplativa). Altri vivevano nel cenobio, praticando la lotta della totale obbedienza (hypotage) all’igumeno.
Il monaco di un monastero cenobitico – ci fa notare André Guillou – poteva uscire dal convento e condurre non lontano di lì la vita ritirata dell’asceta, per poi rientrare nell’ambito cenobitico; quello che si aggregava ad un centro monastico poteva stabilirsi in una grotta o in una caverna, la quale era in genere situata nella prossimità d’un monastero, da cui l’anacoreta dipendeva[20]. Se questo schema trovasse o meno rispondenza anche a Laurignano non possiamo dirlo con certezza; ciò che invece possiamo affermare senza esitazione è che gli indizi a nostra disposizione (toponomastica, habitat, vestigia, culti) e il ricorso alle fonti tradizionali del X-XII secolo (typikà, bíoi e altre annotazioni agiografiche) suggeriscono un modello stereotipato di organizzazione monastica italo-greca adattabile per analogia al territorio laurignanese.
La penuria di solide fonti documentarie, archeologiche e iconografiche, tuttavia, impone su questo tema la massima cautela. L’auspicio – accompagnato da un’intima speranza – è che nuove prove e studi più qualificati giungano a illuminare questo aspetto fondamentale dell’esperienza monastica bizantina nelle nostre contrade.
Vediamo ora quali altri toponimi e culti ci offrono ulteriori indizi sulla più che probabile frequentazione di monaci bizantini nel territorio laurignanese. Prima di procedere con le località derivate da nomi, culti e devozioni di santi di origine grecanica, dobbiamo purtroppo registrare che, della chiesa parrocchiale intitolata al martire S. Nicola, attestata agli inizi del XV secolo, non è rimasta traccia. È pertanto difficile individuarne la localizzazione sul territorio. Anche il toponimo S. Basilio, come già osservato, non esiste più oppure ha cambiato denominazione. I toponimi S. Janni, S. Maria, Santa Sofia sono tuttora presenti nella toponomastica laurignanese. La loro caratteristica principale è quella di essersi perpetuati nella lunga durata, tramandandoci quelle informazioni che la storia ufficiale in genere non attesta.
S. Nicola - Un santo di sicura origine greca attestato nel territorio di Laurignano è S. Nicola. La presenza di una «ecclesiae parochiali S.ti Nicolai de Lauriniano» è riportata in un documento della Cancelleria Vaticana del 1413[21]. Il documento citato non ci offre altre indicazioni. Un altro riferimento alla chiesa parrocchiale intitolata a S. Nicola risale agli inizi del secolo XVI (1504), quando papa Giulio II concesse a Iohanni Petro Sistar «de parochiali ecclesiae S. Nicolai, casalis Laurignano»[22]. Altra testimonianza sicura ci è data da un atto rogato dal notaio cosentino Maugeri, nel 1610. Nel documento è attestato «uno pecto de terra posto in detto territorio di Laurignano loco ditto S. Nicolai»[23].
 
Santa Sofia - È un altro agiotoponimo di origine greca[24], localizzato sullo stesso versante del crinale che guarda al Busento, in prossimità della contrada Specola, al confine tra Tessano e Laurignano. La località risulta attestata nei Libri parrocchiali del '700. Il parroco Oliveti, nel 1759, registrò il decesso di Francesco Pugliese avvenuto in località S. Sofia, mentre nel 1777, don Antonio Plastina, parroco, annotò la morte di Pietro Federico e Caterina Miniaci avvenuta presso «la torre di S. Sofia»[25]. Anche questa santa ha origini grecaniche, ed è assai venerata in Oriente. La località figura ancora oggi nella toponomastica laurignanese.
 
S. Janni - Il toponimo S. Janni è attestato la prima volta in un documento notarile del 3 aprile 1590, rogato dal notaio Plantedi di Cosenza. Nel documento si fa riferimento ad un  «pago di Petro in loco ditto la valle di S.to Joane»[26]. Il nome del santo designa l’omonimo quartiere ed è di derivazione greca[27]. La località risulta attestata anche nel 1626, quando Fabrizio Doni di Tessano fece la donazione irrevocabile ai propri figli di una proprietà posta nel luogo S. Janni, con torre e vigna[28]. Anche nel Libro dei morti della parrocchia di S. Oliverio il toponimo risulta frequentemente attestato. Nel 1757 vi morì Giuseppe Ajello, nel 1766 Cinzia Borrelli e, nel 1775, una certa Clara Ajello[29].
 
S. Biase – Il microtoponimo si trova a poca distanza dall’antica località S. Basilio, nella zona di Piano Maggese. S. Biase è la versione dialettale di S. Biagio, martire e vescovo di Sebaste, in Armenia. Alla protezione di S. Biagio erano affidati gli agricoltori, il bestiame, i cardatori[30].
 
Il culto dei santi di origine greca, passati a designare il nome di altrettante località del territorio laurignanese, è ragionevole pensare che siano da ascrivere al periodo bizantino, come anche le chiese consacrate ai santi del Menologio. Generalmente, tali dedicazioni rimontano a prima del 1054, anno in cui fu decretato lo scisma fra cattolici e greco-ortodossi. Sarebbe altrimenti impensabile, ammettendo una cronologia posteriore a questa data, che si intitolassero luoghi di culto a santi della Chiesa greca, ormai autocefala e scomunicata, anziché ai canonizzati della Chiesa romana. Ciò appare ancora più vero se si considera che proprio in questo periodo cominciò la “latinizzazione” della Calabria e della Val di Crati ad opera dei Normanni. Cosenza, infatti, dopo il 1056, rientrò nel mondo normanno e nella giurisdizione ecclesiastica romana[31]. Una svolta radicale e scismatica, inoltre, presupponeva la cancellazione di tutto ciò che direttamente o indirettamente si richiamasse al passato.
Con la conquista del Mezzogiorno da parte del Guiscardo (1059) il rito greco fu spinto verso la lenta consunzione per lasciare spazio a quello latino, di obbedienza pontificia e romana. L’intitolazione di una nuova chiesa, cappella, icona, ecc., acquistava pertanto il significato simbolico del predominio di una confessione sull’altra. Per questa ragione le chiese e i culti consacrati nel territorio di Laurignano a S. Nicola, S. Basilio, S. Janni, S. Sofia, tutti santi di origine bizantina, è probabile che risalgano al periodo pre-scismatico.
Intensificare le ricerche per conoscere e riconoscere il contributo che la spiritualità bizantina, con i suoi culti ed i suoi riti ha apportato alla formazione della cultura tradizionale del nostro territorio, ci consentirebbe forse di comprendere il divenire storico della comunità e l’identità collettiva della popolazione laurignanese.
[1] S. Basilio non fondò mai un Ordine basiliano. L’espressione «monaci basiliani» è pertanto storicamente inesatta. «Col il termine “basiliano”, verosimilmente coniato nella cancelleria di Innocenzo III, si identifica genericamente tutto il monachesimo italo-greco». La citazione è ripresa in P. Dalena, Istituzioni religiose e quadri ambientali nel Mezzogiorno medievale, Cosenza 1997, p. 17, n. 2
[2] Sul monachesimo bizantino in Calabria si vedano i pregnanti studi di A. Guillou, A. Pertusi, F. Burgarella, V. Von Falkenausen, E. Morini, B. Cappelli, E. Follieri e altri studiosi.
[3] A. Guillou, L'Italia bizantina dalla caduta di Ravenna all'arrivo dei Normanni, in Storia d'Italia diretta da G. Galasso, vol. III, Torino 2002, pp. 12-13
[4] Ibidem, pp. 14-15
[5] A. Guillou, L'Italia bizantina…cit, p. 15
 
[6] M. H. Laurent, A. Guillou, Le “Liber visitationis” d’Athanase Chalkèopoulos, Città del Vaticano 1960, (Studi e Testi 206)
[7] F. Russo, Storia dell’Arcidiocesi do Cosenza, Napoli 1957, p. 88
[8] A. De Monte, S. Laverio Martire...cit., p. 46
[9] P. Dalena, Istituzioni religiose…cit., p. 20
[10] ASCS, notaio De Luca, anno 1592, sch. 17
[11] ASCS, notaio Plantedi, anno 1592, sch. 107v
[12] «I cristiani preferivano pregare verso oriente, perché consideravano che il sole vero è Gesù, che illumina e dà calore agli uomini. Egli verrà dall’oriente per il giudizio universale. Dall’oriente apparirà la croce, trofeo di vittoria e di trionfo finale. Il paradiso, poi, è a oriente» (N. Ferrante, Santi italogreci…cit., p. 85)
[13] A. Scarcello, Laurignano...cit., p. 102-105
[14] E. Morini, Monachesimo greco in Calabria. Aspetti organizzativi e linee di spiritualità, in Studi bizantini e Slavi (Quaderni della Rivista di Studi Bizantini e Slavi) diretta da A. Carile, n. 15, 1946  
[15] Liber Emortualium
[16] Ibidem
[17] Ibidem
[18] A. Pertusi, Scritti sulla Calabria greca medievale, Soveria Mannelli 1994, pp. 139-140
[19] N. Ferrante, Santi italogreci. Il mondo bizantino in Calabria, Roma 1992, p. 54
[20] A. Guillou, L’Italia bizantina dalla caduta di Ravenna all’arrivo dei Normanni, in Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, Torino 2002, vol. III, p. 112
[21] RVC, Vol. II, n. 9377
[22] RVC, Vol. II, n. 14743
[23] ASCS, notaio Maugeri, anno 1610, sch. 437v
[24] A. Scola, Le diocesi di Cosenza e Bisignano: strutturazione toponomastica tra grecità e latinità, in Toponomastica calabrese, a cura di J. Trumper, A. Mendicino, M. Maddalon, Roma 2000, p. 163
[25] Liber Emortualium
[26] ASCS, notaio Plantedi, anno 1590, sch. 47v
[27] A. Scola, Le diocesi di Cosenza...cit., p. 163
[28] S. Brich, Catasto Onciario di Tessano. Anno 1743. Il dattiloscritto è consultabile presso la Biblioteca del Santuario Madonna della Catena di Laurignano. D’ora innanzi Catasto Onciario
[29] ASCS, Liber Emortualium
[30] F. Dal Pino, Santi protettori di mestieri nella Calabria medievale, in Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale: tecniche, organizzazioni, linguaggi, Atti dell’VIII Congresso Storico Calabrese, Palmi (RC) 19-22 novembre 1987, Soveria Mannelli 1993, p. 362
[31] J. Trumper, Alcuni problemi generali di toponomastica calabrese, in Toponomastica calabrese…cit., p. 126