Addetti alla cura animarum

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La mancanza di fonti non ci consente purtroppo di delineare, o soltanto di abbozzare, un'indagine anche sommaria sull'articolazione e il funzionamento delle parrocchie laurignanesi nei secoli centrali del Medioevo (XII-XIV sec.), né ci dà la possibilità di affrontare con sufficiente attendibilità il tema concernente gli addetti alla cura animarum, i connotati principali del loro apostolato, l'estrazione sociale, il livello culturale. Per quanto riguarda questo periodo la documentazione in loco è andata interamente dispersa o distrutta a causa di spoliazioni, incendi, terremoti, incuria umana, mentre le fonti relative al periodo compreso tra il 1142 e il 1324 (offerte pro anima, documenti della corte federiciana, cedole dei Registri Angioini, Rationes Decimarum) non disvelano alcun indizio utile ad illuminare l'attività pastorale che le stesse parrocchie esercitavano.

Diverso è il discorso a partire dal '400. Da questo periodo in poi le fonti della Cancelleria Vaticana ci offrono scarne ma precise notizie riguardo alle parrocchie stesse,  e interessanti spunti di riflessione su taluni ecclesiastici che ne percepivano il beneficium, in particolare la prebenda. Sul piano generale, in riferimento all'organizzazione parrocchiale, Pietro De Leo ci fa notare che nelle Rationes Decimarum e nelle lettere papali anteriori al sec. XV non vi è traccia del termine plebs e dei suoi derivati come plebanus e plebanatus[1].  Un altro dato significativo che possiamo rilevare dalle carte superstiti è che nel XV secolo, ad numero di parrocchie, chiese, ecclesiastici più che sufficiente rispetto alla consistenza della popolazione laurignanese, non sempre corrispondeva un adeguato funzionamento dell'attività pastorale; anche la vita spirituale mostrava sovente esempi poco edificanti. In quel periodo, infatti, la disciplina ecclesiastica subì un vero e proprio tracollo, e la corsa alle prebende e alle porzioni più consistenti ispirò il comportamento di tanti uomini di chiesa. La stessa cura delle anime ne pagò dure conseguenze, subordinata com'era a interessi che con essa nulla avevano a che fare[2].

In seno ai benefici parrocchiali furono costituite prebende estranee al sollievo dell'anima dei fedeli. Nei secoli XV e XVI si giunse a conferire benefici parrocchiali a dignitari ecclesiastici e persino a chierici inferiori, accumulandoli anche sulle medesime persone. Il concilio di Trento pose un freno a questo andazzo[3]. Nel piccolo casale di Laurignano la situazione non differiva dal resto della regione. Le parrocchie erano amministrate da più sacerdoti o rettori, «rectores», che incameravano le rendite delle porzioni, del canonicato, dei singoli altari o delle singole cappelle. Nel gennaio del 1400, il canonico cosentino Salvatore di Arcavacata, pur essendo già parroco di S. Pietro in Guarano, ricevette da Bonifacio IX il canonicato e la prebenda della S. Croce nella Cattedrale di Cosenza, due porzioni delle chiese parrocchiali di S. Cipriano in Mangone e di S. Lorenzo in Laurignano[4]. Considerato che all'epoca gli spostamenti da un luogo all’altro erano tutt’altro che agevoli, in particolare durante la stagione invernale, e che su questo personaggio gravavano dubbi di canonicità, è lecito dubitare che egli amministrasse i sacramenti in prima persona e che la sua azione pastorale fosse esente dall'approssimazione.

Le perplessità aumentano se pensiamo alla involuzione dell’istituto del beneficium, che da valore strumentale nei confronti dell’ufficio (una rendita che permetteva al parroco di dedicarsi senza altre preoccupazioni alla cura delle anime), divenne con il passare del tempo il fine (una rendita da acquisire comunque, anche senza svolgere personalmente il ministero), con grave nocumento per la cura delle anime, esercitata in condizioni miserevoli da mercenari. Si spiega in questo modo la situazione paradossale che si creò nella Chiesa dal periodo feudale fino al concilio di Trento: ecclesiastici in possesso di un gran numero di benefici, i quali, non volendo o non potendo risiedere nelle diverse sedi in cui avrebbero dovuto esercitare il ministero, vivevano nella città e affidavano la cura della anime al migliore offerente, cioè a chi chiedeva una minore ricompensa[5]. I rappresentanti del clero – come noteremo più avanti – godevano anche dei benefici rivenienti dalla pietà di singoli benefattori, consistenti nelle oblazioni ordinarie e straordinarie, nelle decime e primizie ed anche nei proventi del patrimonio proprio, in particolare nei fondi che in misura diversa erano prescritti per la fondazione di una tale chiesa battesimale[6].

Il clero secolare, suddiviso in sacerdoti e chierici, costituiva nelle diverse università calabresi una categoria assai numerosa della compagine sociale. L’aspirazione ad entrare nelle sue fila era dettata soprattutto dai privilegi di cui essa godeva. «E' abbastanza verosimile – scrive ancora il De Leo – che a determinare la compresenza di due o più rectores nella medesima chiesa parrocchiale abbiano concorso diversi motivi: centri abitati minuscoli, dove la popolazione rurale viveva in casolari sparsi, che esigevano un servizio pastorale di natura capillare; a ciò si aggiunga per il Medioevo l'esuberanza del beneficio ecclesiastico, che non potendo essere cumulato quando erano curati avevano determinato la divisione della cura delle anime in "porzioni", in base all'appartenenza a famiglie o al territorio a seconda delle abitudini locali»[7].

Nelle nostre contrade, dalle fonti a disposizione si evince chiaramente che il ricorso alle porzioni, al canonicato, alle prebende, alle rendite parrocchiali sotto le forme più svariate era prassi corrente. Altri esempi, oltre a quello citato del canonico Salvatore di Arcavacata, ci confortano in questa asserzione. Il 21 marzo 1419, sotto papa Martino V, venne ordinato al Tesoriere della Chiesa di Cosenza di "provvedere" Bartolomeo Ruggero Quattromani, chierico cosentino, del canonicato e della prebenda di S. Salvatore di Laurignano, ottenute in precedenza dal canonico Salvatore di Serra, deceduto[8]

Un documento del 3 settembre 1421 ci informa che l'arcidiacono di Cosenza dovette confermare al canonico Alessandro di Federico la "provvista" della chiesa di S. Laberio, vacante in seguito alla libera rinunzia del rettore Salvatore di Arcavacata[9]. Ma non erano soltanto i chierici cosentini a beneficiare delle rendite rivenienti dalle parrocchie laurignanesi. In un documento emanato dalla Cancelleria Vaticana il 28 agosto 1460 è riportata la notizia della concessione ad un certo Bnobis, chierico salernitano, della prebenda e del canonicato della chiesa di S. Salvatore di Laurignano, della chiesa di S. Pietro, ubicata nella zona dello Jassa, e di alcune porzioni di altre chiese tutte in diocesi di Cosenza[10].  Il 19 febbraio 1486, sotto papa Innocenzo VIII, venne ordinato a Francesco di Maffeis e Francesco de Sinibaldis, canonici della Basilica del Principe degli apostoli in Roma, e al vicario generale arcivescovile di Cosenza, di assegnare a Francesco di Antonio Pietro di Albertoni, chierico romano, la prebenda di S. Salvatore, vacante per la morte di Carlo Setario, di beata memoria, vescovo di Isernia, il quale l’aveva posseduta per disposizione e dispensa apostolica[11]. Anche le rendite di una chiesa intitolata a S. Nicola, in territorio di Laurignano, furono concesse nel 1504 ad un certo Iohanni Petro Sistar[12]. La prassi di dividere la parrocchia in porzioni e di concedere il canonicato, la prebenda e altri benefici a ecclesiastici, pur se riferita alla sola parrocchia di S. Oliverio, è rimasta invariata anche nei secoli successivi, come confermatoci da numerose attestazioni della Cancelleria Vaticana e atti notarili.

Ma quali erano i redditi delle parrocchie? e quanto rendevano le parrocchie laurignanesi? Rispondere con precisione a questo secondo interrogativo non è ovviamente possibile, vista la mancanza di fonti documentarie esaustive. I redditi destinati al culto erano di norma identici in tutte le parrocchie: questue, offerte, decime, redditi di immobili (case o piccoli appezzamenti di terra sparsi nel territorio della parrocchia), rendite ricevute in eredità da benefattori. In età angioina, la Guerra del Vespro intervenne a rincarare la dose di precarietà e di miseria che attanagliava le popolazioni calabresi. Alle innumerevoli tasse governative si aggiunse quella di natura sacramentale, la decima, imposta da Clemente V tra il 1310 e il 1311 e soprattutto da Giovanni XXII nel 1324. La riscossione delle decime costituiva abitualmente la principale fonte di reddito di una parrocchia in generale e del parroco in particolare[13].

Mal digerita dai parrocchiani, essa indicava il contributo forzoso dovuto ai sacerdoti dei luoghi di culto, consistente nella decima parte dei frutti della terra. Nelle Rationes Decimarum relative al 1324, pubblicate dal Vendola, per quanto riguarda il casale di Laurignano è testualmente riportato: «Item a dompno Luca de Lauriniano tarì II et grani X»[14]. Purtroppo, di questo Luca, non sappiamo altro, né la laconicità del documento originale dell’Archivio Segreto Vaticano ci offre ulteriori ragguagli o spunti di riflessione sullo svolgimento della vita religiosa e cultuale in seno alla borgata. Nei secoli XV e XVI i riformatori si dichiararono nettamente contrari alle decime, negandone la validità. Dopo il concilio di Trento, l’istituto della decima, ancora più che in passato, fu contestata dai fedeli, diventando motivo di forte attrito con i parroci. Nel Regno di Napoli la definitiva soppressione delle decime si ottenne nel 1772[15]. Vennero sostituite con una «libera» offerta dei prodotti della terra da parte dei fedeli nelle parrocchie rurali.

Riferimenti più precisi riguardo alle rendite delle parrocchie laurignanesi ci pervengono dai manoscritti della Cancelleria Vaticana, a partire dalla fine del ‘500. Nel giugno del 1595 Rocco Gatti, chierico diocesano, ricevette in beneficio la rendita della parochiali ecclesia S. Oliverii, pari a 23 ducati, vacante per la morte di Laudomedonte Miranda. Il pontefice era a quell'epoca Clemente VIII[16]. Mezzo secolo dopo, nel 1646, un certo Francesco Galasso, presbitero diocesano, approvato in concorso, venne "provvisto" della medesima chiesa del casale di Laurignano, baiulationis Tessani, i cui frutti ammontavano a 24 ducati, vacante per la morte di Ottavio Borrelli, deceduto poco prima. Contestualmente gli venne imposto l'obbligo di rimettere la porzione della chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo, in località Paterno[17]. Sul finire del XVII secolo Giuseppe Valentino, anch'egli presbitero diocesano, ricevette il beneficio di riscuotere la rendita della chiesa di S. Oliverio, pari a 10 ducati, vacante per la morte di Giuseppe Albisani, morto nel mese di ottobre del 1669[18]. Agli inizi del Settecento (1706), Gennaro Mele, presbitero, venne "provvisto" della chiesa, la cui rendita, insieme agli incerti, ammontava a 60 ducati, vacante per la morte di Geronimo Iaccino[19].

Ma non erano soltanto i parroci o i rettori alla guida delle parrocchie diocesane a ricevere il beneficium connesso all’esercizio del loro ufficio e alla cura animarum. Anche le chiese rurali sine cura  e dipendenti dai monasteri – come presto si vedrà – potevano talvolta essere fonte di entrate. In Età Moderna, nel piccolo casale di Laurignano e nelle campagne circostanti, il ministero della «cura animarum» veniva espletato in maniera capillare dal clero locale, rettori o cappellani o parroci preposti alla custodia dei luoghi di culto. Un enorme contributo alla crescita spirituale dei fedeli era fornito anche dai monaci presenti sul territorio[20]. Allo stato attuale, purtroppo, non disponiamo di documentazione che ci aiuti a delineare l’estrazione sociale dei parroci laurignanesi, il rapporto con la sede vescovile, con i monasteri presenti sul territorio, con i fedeli e con tutte le altre figure gravitanti intorno alla parrocchia. Né siamo in grado di fornire notizie precise in merito alla loro vita, ai tratti salienti del loro apostolato.

Dalle annotazioni sui Registri parrocchiali, apposte con mano e calligrafia sicura, appare chiaro come gli ecclesiastici laurignanesi avessero complessivamente una discreta preparazione culturale, forse  stimolata dal benefico influsso esercitato dai frati mendicanti operanti sul territorio. Generalmente con i parroci rurali si era abbastanza permissivi. «Non brillando per impegno ascetico, per rigore morale, per livello culturale e per dedizione pastorale, monaci e curati vivevano quasi laicamente, intenti a sfruttare i beni che la pietà dei fedeli aveva legato ai centri di meditazione e di culto»[21]. Legato com’era alla realtà popolare del suo villaggio, più incline alla cultura folklorica piuttosto che a quella curiale e cittadina, il prete contadino ignorava, talvolta, in forma anche clamorosa, quelli che avrebbero dovuto essere i fondamenti del suo ministero[22]. Accanto all’ignoranza, anche la trascuratezza e i cattivi costumi venivano puntualmente stigmatizzati dai visitatori apostolici. Per non parlare del concubinato, che era diffusissimo. In una bolla del luglio 1519, Leone X fu costretto a riconoscere che erano state promosse al sacerdozio «persone ignoranti, incapaci di leggere e scrivere correttamente, prive di ogni titolo di ordinazione o dichiarato con falsità»[23].

Nel complesso, comunque, nonostante i tentativi di alcuni vescovi o pontefici per innalzare il livello morale del clero secolare, attraverso la proposta di un ideale di decora honestas, siano risultati vani, l’immagine del parroco, in via generale, sembra essere stata meno malvagia di quanto a lungo non si sia creduto e detto[24].

Abbracciare lo stato clericale significava assicurarsi una fonte di sostentamento sicura e la possibilità di affrancarsi dalle grinfie del fisco. E ciò non era poco, soprattutto in momenti di grave congiuntura socio-economica. Non a caso, gli ecclesiastici regolari e secolari erano completamente esenti dalle imposte. I primi appartenevano agli ordini monastici, i secondi erano soggetti al controllo vescovile ed erano normalmente addetti alle parrocchie. «Nel corso del Cinquecento, la proprietà immobiliare era intestata, più o meno fittiziamente, a persone ecclesiastiche (...) Esenti dal pagamento delle imposte non pochi membri del clero prestavano il proprio nome  a vendite fittizie dei beni, molto spesso di parenti».

Sul finire del XVI secolo il governo spagnolo si trovò di fronte alle evasioni fiscali frutto degli escamotages ecclesiastici, proprio come il precedente governo aragonese nel 1473. Ma a differenza dei loro predecessori, i governanti spagnoli adottarono provvedimenti «pieni di riguardi e contemplavano eccezioni varie e il completo riconoscimento delle esenzioni dei beni acquisiti dagli ecclesiastici dopo l’assunzione dell’ordine sacro».

Se per accedere al clero minore non vi erano discriminazioni di natura economica, per conseguire i voti sacerdotali bisognava possedere, secondo le disposizioni del concilio Tridentino, beni immobili per un valore capitale di almeno 600 ducati. Era pertanto impossibile per il ceto inferiore fare diventar i propri figli sacerdoti, ufficio ecclesiastico che era di fatto riservato ai membri delle famiglie più abbienti.

Ma chi attendeva all’amministrazione dei sacramenti? La terminologia che si riscontra nelle fonti medievali e dell'Età Moderna risulta abbastanza composita. «L’obbligo imposto ai laici dal concilio Lateranense IV – scrive il Vauchez – di confessarsi dal loro sacerdos proprius e di comunicarsi almeno una volta l’anno presso la propria chiesa, segnò una svolta significativa, testimoniata da un cambiamento nella terminologia: da semplice clericus o presbiter, come era stato in precedenza, chi serviva presso na parrocchia fu elevato allora allo statuto, decisamente più prestigioso, di curatus o di rector, grazie all’acquisizione di nuove attribuzioni nel campo della cura animarum»[25]. Nella citata offerta pro-anima del 1142, il primo documento in cui è menzionata Laurignano, «è rappresentato il ceto ecclesiastico e il ceto borghese della società normanna della Calabria»[26], come ha ben osservato Franco Mosino. «Orso continua lo studioso fa testamento alla presenza di Giovanni, medico e giudice, Ugo arcidiacono, Cono, cappellano, Roberto, medico e canonico, ed altri. Lo scriptor del documento è Hervenus. Ecclesiastici, medici e giuristi esprimevano le élites culturali del tempo»[27]. Nelle carte quattrocentesche ricorre frequentemente il termine canonico.

A partire dalla seconda metà del Seicento, i Registri parrocchiali di S. Oliverio ci offrono esigue ma significative indicazioni riguardo all’articolazione del clero laurignanese. Il primo elemento di riflessione è che Laurignano aveva come titolare della parrocchia un «rector», un «economus» o un «parochus». In alcuni atti di matrimonio del 1653 la firma in calce è di «Paulo delli Preiti rector». Nel 1661 a reggere la parrocchia di S. Oliverio era il rector don Paolo de Presbiteris, così come Giuseppe Albisani, rettore nel 1669. A partire dal 1670, alla guida della parrocchia si insediò don Giuseppe Valentino, economus. Nel 1680 figura invece come rector. Nel 1688 anche don Geronimo Iaccino si firmava come economus. Qualche anno più tardi, però, egli figura come «rector». Agli inizi del XVIII secolo sono attestati don Domenico Carnevale, economus, e don Gennaro Miele, parochus. Nel 1715 la parrocchia era retta dal «sacerdos Nicolaus Valentinus parochus». Agli inizi dell'Ottocento, don Manfredi si firmava economus e curatos. Tra le varie figure quella istituzionalmente più modesta era il cappellanus o parroco rurale, il quale, non potendo fare affidamento su cospicue decime, non di rado era costretto a lavorare la terra e a guadagnarsi da vivere.

Assai più altisonanti erano i titoli dei visitatori diocesani. Nel 1776, Domenico Mazzei, in calce al Liber mortuorum, appose la sua firma sotto gli appellativi visitator, canonico e theologus[28]. La figura più importante in seno alle parrocchie rurali era invece il parroco. Nelle fonti documentarie antecedenti al concilio Tridentino questo appellativo si trova raramente; solo dopo il concilio divenne comune e diffuso. Egli aveva il compito di annunziare la parola di Dio al popolo e di amministrare i sacramenti. La sua missione era un vero e proprio ufficio ecclesiastico: egli riceveva la parrocchia come in proprietà, ne diventava il titolare e a nome proprio e in modo stabile esercitava l’ufficio. Tali prerogative richiedevano, però, da parte sua, il rispetto rigoroso di alcuni obblighi. In forza dell’ufficio che occupava era tenuto ad amministrare i sacramenti ed occuparsi del bene spirituale delle anime, a guidare e stimolare tutta l’attività religiosa della parrocchia. Le disposizioni conciliari e sinodali che riguardavano la sua persona – dalla nomina alla determinazione degli ambiti del suo ministero – ne mettevano in risalto l’insostituibilità entro la comunità cristiana affidatagli dal vescovo[29].

Nelle campagne il parroco era il referente obbligato della vita religiosa e gestore universale di ogni aspetto del soprannaturale, anche di quello magico stregonesco. Non erano rari i casi di parroci che si impegnavano a liberare i loro fedeli da malefici, o nel proporre loro ricette taumaturgiche. Ricordiamo a questo proposito il caso di Ottavio Gallo, un religioso che, secondo la Cronaca secicentesca del Frugali – che non trova conferma in altre fonti coeve o postume – fu scomunicato dall’arcivescovo di Cosenza e poi condannato alla forca purificatrice, nel gennaio 1596. È scritto testualmente nella Cronaca frugaliana curata dal Galli: «A 11 luglio 1594 Monzignor Arcivescovo dissacrò Don Ottavio Gallo dell’Aurignano (...) La dissagrazione si fece, e lo detto Ottavio fu condotto alle carceri, dopo alcuni giorni fu mandato a Napoli al Nunzio, finalmente alli 29 gennaio 1596 fu afforcato in Napoli. (...) La provincia di Cosenza e la stessa città furono abbondantemente insanguinate da truci sentenze del tribunale ecclesiastico, il quale perseguitava con lo stesso rigore non solo i ritenuti rei, ma anche coloro (compresi monaci e sacerdoti) che venivano in sospetto di intendersela con i Valdesi, o che cercavano onestamente di frenare tanto accanimento a loro danno. (...) Terminata la funzione Don Gallo fu condotto prigioniero nelle carceri del Santo Uffizio, le quali esistevano sotto il palazzo dell’Arcivescovo. Poi il condannato fu spedito a Napoli alla mercé del Nunzio pontificio, ed ivi venne finalmente impiccato. La sua agonia durò dall’11 luglio 1594 al 29 gennaio 1596, con l’aggravante del viaggio fattogli compiere da Cosenza a Napoli»[30].

Una volta insediatosi in una parrocchia, il parroco poteva contare sull’assistenza di uno o più preti che a titolo diverso gli prestavano il loro aiuto. Negli anni Sessanta del XVIII secolo, il parroco di S. Oliverio don Paolo Cozza faceva affidamento su Antonio Crescebene, economo e reverendo, il quale, per esempio, nel 1768, confessò e dette l’unzione e il viatico (la comunione portata ai moribondi, così chiamata perchè apriva la via all’eternità) alla giovane Angela Morello, in procinto di rendere l’anima a Dio[31]. Anche l’economus e curatus don Antonio Plastina, nel 1776, figura come coadiutore del parroco Cozza.

Scelto dallo stesso parroco, operando alle sue dirette dipendenze, il vicario era per lui il più prezioso degli ausiliari. In assenza del titolare egli assumeva totalmente il governo della parrocchia. Oltre al parroco e al vicario, nell’ambito di una parrocchia risiedevano oppure operavano i cappellani, i quali dovevano provvedere a precise funzioni come la celebrazione di messe in una determinata chiesa o altare. La preoccupazione principale del cappellano era quella di adempiere al servizio religioso della cappella del cui beneficio era titolare, sia nella stessa chiesa parrocchiale, sia in qualche altro luogo di culto presente sul territorio[32].

Anche se riferito ad un rappresentante del clero regolare, un atto del notaio Casini di Cosenza, datato 20 agosto 1861, ci informa che l’eremita Benedetto Falcone, superiore dell’Istituto Religioso da lui fondato sotto il titolo di Santa Maria della Catena, si determinò a provvedere e fornire frate Alfonso Bernardi di S. Pietro in Guarano, aggregato a detto Istituto, «di Sacro patrimonio onde ascendere agli ordini sacri, e fare solenne professione concedendogli il citato beneficio di celebrazione di messe addetto all’altare della Cappella di San Michele Arcangelo situato dentro la chiesa di Santa Maria la Catena». Si trattava della cappellania annessa all’altare della cappella di San Michele Arcangelo, la sola rimasta libera, il cui beneficio consisteva nella celebrazione di cinque messe la settimana, «l’elemosina di grana venti per ogni messa che percepirà Fra Alfonso Bernardi nell’ammontare annuale di circa docati cinquanta»[33].

Il clero addetto alle parrocchie laurignanesi, nella quasi generalità, riceveva una qualche formazione nei seminari della diocesi di Cosenza sorti dopo il concilio di Trento. Se raffrontato con il clero pre-tridentino, il cui fine principale era quello di beneficiare di porzioni e prebende e del quale il canonico Salvatore di Arcavacata può forse considerarsi più che un’eccezione un prototipo, v’è da dire che esso era complessivamente più dignitoso, più castigato nei costumi, raramente concubinario, che praticava la residenza. Si trattava, in definitiva, di un clero che cercava di assecondare il bisogno di trascendenza di una societas christiana completamente illetterata e analfabeta, fragile, la cui precarietà esistenziale traspariva nitidamente da una quotidianità intrisa di paura e fame, di violenza e inganni, di soprusi e pratiche superstiziose.    

 

[1] P. De Leo, Mezzogiorno medioevale...cit., p. 165

[2] P. Ibidem, p. 180

[3] Enciclopedia Cattolica, vol. IX, vedi alla voce parrocchia, Firenze 1952, p. 856

[4] RVC, Vol. II, n. 8773

[5] H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, Vol. II, Brescia 1974, pp. 367-426, citato in A. Longhitano, L’obbligo della residenza del parroco e la reggenza della parrocchia durante la sua assenza, in La Parrocchia, Studi Giuridici, XLIII, Città del Vaticano 1997, p. 155, n. 4

[6] A. M. Sickler, La parrocchia nella evoluzione storica, in La Parrocchia…cit., p. 8

[7] P. De Leo, Mezzogiorno medioevale...cit., p. 180

[8] RVC, Vol. II, n. 9470

[9] RVC, Vol. II, n. 9537

[10] RVC, Vol. II, n. 11610

[11] RVC, Vol. II, n. 12972

[12] RVC, Vol. III, n. 14743

[13] V. Bo, Storia della parrocchia. La parrocchia tridentina, vol. V, Bologna 2004, p. 177

[14] D. Vendola (a cura di), Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Città del Vaticano 1939, p. 320

[15] V. Bo, Storia della parrocchia…cit., p. 177

[16] RVC, Vol. VI, n. 25009

[17] RVC, Vol. VII, nr. 35051

[18] RVC, Vol. IX, nr. 44933

[19] RVC, Vol. IX, nr. 50634

[20] P. De Leo, Una diocesi tra due imperi. Bisignano in Val di Crati dalle origini al secolo XIV, in Bisignano e la Val di Crati tra passato e futuro. Atti del Convegno di Studi. Bisignano 14-15 giugno 1991, Soveria Mannelli 1993, p. 53

[21] P. De Leo, Mezzogiorno medioevale...cit., p. 190

[22] “La Bibioteca di Repubblica”, (a cura di M. L. Salvadori), La Storia. Il Cinquecento: la nascita del mondo moderno, vol. VII,  Torino 2004, p. 137

[23] La citazione è stata ripresa da “La Bibioteca di Repubblica”, La Storia. Il Cinquecento…cit., p. 138

[24] A. Vauchez, Esperienze religiose…cit., p. 189

[25] Ibidem, p. 184

[26] F. Mosino, Storia linguistica della Calabria, Bologna 1988, vol. I, p. 121

[27] Ibidem, p. 121

[28] Liber emortualium

[29] V. Bo, Storia della parrocchia…cit., p. 159

[30] E. Galli, Cosenza seicentesca nella cronaca del Frugali, Roma 1934, pp. 34-37

[31] Liber emortualium

[32] V. Bo, Storia della parrocchia…cit., pp. 172-173

[33] ASCS, notaio Casini, anno 1861, sch. 364-369