Dopo aver dimorato nei
chiostri della Sambucina e di Corazzo, soggiornato a Casamari e percorso
la trafila che da imberbe novicius lo elevò fino alla dignità di abate,
Gioacchino da Fiore (1130ca Celico – 1202 S. Martino di Canale)[1]
intraprese un cammino spirituale tortuoso, nell'intento di assecondare
una vocazione monastica improntata alla povertà e di ripristinare la
«pia sollecitudine» e quel rigore ascetico dei primordi che i monaci di
Cistercio, soverchiamente mondanizzati e invischiati nelle vicende
temporali del secolo, ai suoi occhi non erano ormai più in grado di
assicurare.
Sfidando le censure del Capitolo Generale[2], determinato a perseguire
la perfectio monastica – in sintonia con i dettami della Regula
Benedicti –, l’Esegeta celichese non esitò ad abbandonare l’abito bigio
dei Cistercensi per ritirarsi nel cuore solitario della Sila, donde
erigere il primo «riceptaculo monachis» idoneo ad alloggiare confratelli
e infermi bisognosi di assistenza. Prima e dopo la sua designazione ad
abbas monasterii condusse un’esistenza raminga e connotata di severa
austerità, conferendo una convinta importanza all’esercizio dell’ufficio
abbaziale. Viaggiò in Italia e fino in Terra Santa, intrattenne
relazioni diplomatiche con pontefici e sovrani, allacciò solide amicizie
con Raniero da Ponza e Luca di Casamari, suo fedele discepolo e scriba,
e futuro arcivescovo di Cosenza.
Ma il Veggente florense, evocato nella Commedia dantesca[3], assurse ad
auctoritas della civiltà religiosa del Medioevo occidentale per il
messaggio profetico e per la tensione spirituale contenuti nei suoi
scritti. La dottrina gioachimita, infatti, era profondamente
sovversiva[4]. La sua concezione trinitaria della storia – l’avvento
dell’età dello Spirito Santo, dopo l’età del Padre e quella del Figlio –
confutava l’unità divina delle tre persone della Trinità, «in aperto
contrasto con la dottrina ufficiale propugnata dal magister Pietro
Lombardo»[5]. Questa sua teologia trinitaria ispirerà più tardi la
predicazione dei Francescani rigoristi, detti Spirituali o Fraticelli,
staccatisi polemicamente dal ceppo originario e osteggiati dalla Chiesa
in quanto considerati eretici.
Dopo la fondazione della Congregazione florense (1189), ottenuto
l'assenso pontificio alle Costituzioni dell’Ordine (Celestino III,
1196), nella prima metà del secolo XIII, grazie alla benevola
munificenza dei sovrani normanno-svevi, «i Florensi toccarono l'apogeo
dell'espansione e della potenza (...), specialmente durante il governo
dell'abate Matteo Vitari, successore di Gioacchino, che governò l'Ordine
per più di 20 anni sotto la protezione di Innocenzo III, Onorio III e
Gregorio IX»[6]. Durante questo periodo suscitarono un rinnovato fervore
religioso, che pervase le nostre contrade attraverso numerose
fondazioni, le quali, come presto si vedrà, incrociarono i loro destini
e i loro interessi con il territorio di Laurignano. Successivamente la
fortuna della Congregazione si affievolì inesorabilmente «fino a
rientrare nell’alveo cistercense, dal quale si era clamorosamente
staccato»[7].
Quando l’abate Gioacchino concluse la sua esperienza terrena diversi
monasteri basiliani e benedettini passarono nelle mani dei Florensi. Le
fonti documentarie (le «Reliquiae» e i Documenti Florensi pubblicati da
Pietro De Leo, le indagini sulle fondazioni Florensi del Russo e del
Baraut), riferite al periodo compreso tra il XIII ed il XIV secolo, ci
offrono scarni ma puntuali ragguagli riguardo all’intreccio tra questa
Congregazione e il territorio di Laurignano, oltre che sull'assidua
frequentazione dei monaci eredi di Gioacchino in tutto il circondario,
in particolare su quei territori lambiti dallo Jassa e in prossimità
della via Popilia.
Un documento pubblicato nel Codice diplomatico della Calabria – che è
anche la prima testimonianza sicura del legame tra il protocenobio
sangiovannese e il territorio di Laurignano – ci dà notizia che
nell’agosto del 1221, Luca Campano, arcivescovo di Cosenza, e Riccardo,
camerario imperiale della Val di Crati, informarono Federico II
sull’accertamento della consistenza e dei confini del tenimento di
Berano, presso Mendicino, che lo stesso imperatore aveva donato al
monastero di S. Giovanni in Fiore, nel 1205[8]. Nel novero dei
funzionari regi cui fu affidato il compito dell’accertamento figura, tra
gli altri, un certo Ugolottam de Lauriniano[9].
Nel territorio della vicina Mendicino i Florensi detenevano due loro
monasteri, di cui uno femminile intitolato a S. Maria dei Martiri[10].
Padre Francesco Russo ha scritto che le vicende di questo monastero sono
legate all'origine del Santuario di Laurignano[11] e che i Florensi
mendicinesi intensificarono la propaganda per il culto alla Madonna
della Catena di Laurignano, da cui distavano soli nove chilometri[12].
Purtroppo, le affermazioni del prestigioso storico castrovillarese,
anche se plausibili e verosimili, non dirimono i dubbi che gravano
sull'argomento[13]. È sorprendente, anzi, che uno studioso del suo
calibro, con quella stessa disinvoltura chissà volte rimproverata ad
altri, abbia attinto tout court da affermazioni – il Padula[14] e una
pia tradizione locale – che, ad oggi, non sono suffragate da fonti
storicamente solide. Lo stesso Russo, del resto, nella sua pregnante
indagine proprio sulle fondazioni Florensi in Calabria, non fa alcun
cenno ai rapporti tra il monastero di Mendicino e Laurignano[15]. Non vi
è traccia di questa vicenda neppure nel saggio di don Cipriano Baraut,
Per la storia dei monasteri Florensi, pubblicato nel 1950 sulla rivista
«Benedictina»[16].
Ciò detto, non possiamo escludere che i monaci Florensi abbiano potuto
esercitare nel territorio di Laurignano la loro influenza, sia sotto
forma giurisdizionale sia come portatori e divulgatori di pratiche
cultuali. Alcuni indizi probativi supportano queste asserzioni, tenuto
conto che il monastero mendicinese raggiunse un notevole sviluppo[17]
proprio durante l'abbaziato di Matteo Vitari (1202-1234), ottenendo
privilegi e concessioni in tutto il circondario. In concomitanza con
l'apogeo dell'Ordine il contado laurignanese verosimilmente pullulava
già di culti, chiese, luoghi pii, pratiche ascetiche e devozionali,
santi uomini consacrati a Dio.
Nel luglio del 1204, a poca distanza dalla scomparsa di Gioacchino, i
Florensi, con un istrumento di permuta, ottennero dalla Chiesa
cosentina, che ne era proprietaria, il tenimento di Botrano, un’ampia e
ubertosa collina in territorio di Paterno. Pensarono di abbandonare la
Sila a causa dell’insopportabilità del clima e per i frequenti assalti
di ladroni e briganti. Per il loro insediamento scelsero Paterno, previa
costruzione di un monastero da intitolare a S. Maria, ma a giudicare
dalle fonti postume non se ne fece nulla[18]. Nel documento si fa
riferimento ad alcune località poste lungo il flumen Aiasse[19], il
quale delimita a est il territorio di Laurignano e nella cui vallata
passava la via Popilia, la consolare romana dalla e per la Calabria
maggiormente transitata durante tutto il Medioevo.
Sulla sponda opposta oltre lo Jassa, proprio di fronte Laurignano,
presso il casale Deodato, intorno al 1220, il monastero di S. Giovanni
in Fiore possedeva una chiusa alberata[20], confermata in un documento
emanato dalla corte federiciana[21]. Qualche decennio più tardi, nel
1253, un instrumentum donationis in favore dall’abate florense Ioanni ci
dà notizia di «quarundam vinearum ac unius horti subtus viam publicam,
in flumine Basentii»[22]. Quattro anni dopo un certo Michele di Amantea,
cittadino e abitante di Cosenza, e sua moglie Mabilia, cedettero al
cenobio florense una casa lignea con orto, «ultra pontem Busensii ubi
dicentur li Revocati»[23], al confine con il territorio laurignanese.
Tra i monasteri Florensi quello di S. Giovanni in Fiore e di Fonte
Laurato, ambedue fondati da Gioacchino, possono considerarsi come le due
case madri di tutta la Congregazione[24]. In un indice di documenti
conservato nella raccolta del fondo Ughelli, presso la biblioteca
Vaticana, pubblicato dal Baraut, vi è «una serie di interessanti notizie
sulle origini, possessioni, sui privilegi, sulle relazioni e vicende
storiche»[25] relative al monastero di Fonte Laurato, in territorio di
Fiumefreddo. Questo importante cenobio florense, secondo una congettura
del Padula (così definita dallo stesso autore) sarebbe legato in qualche
modo a Laurignano. Il letterato acrese scrive testualmente: «Era in
Fiumefreddo un Romitorio detto di S. Domenica; fu donato al 1201 al
nostro celebre Abate Gioacchino; e questi non solo di spirito profetico,
ma dotato benanche di spirito poetico, battezzò quel luogo col nome di
Fonte laureato. Il Lauro sempre verde, e creduto a quei tempi come
l'unico mezzo di difendere dai fulmini le abitazioni degli uomini, era
simbolo di Maria; e Gioacchino, che ad onore di Lei chiamava fonte
coperto di Allori il suo Ospizio in Fiumefreddo, è verosimile che
fondandone un altro sotto gli auspici di Maria della Catena, chiamasse
anche col nome di Lauro quel luogo ed il dicesse Laurignano»[26].
Se quanto affermato dal Padula si iscrive nel solco della tradizione
locale sulle origini del culto della Madonna della Catena di Laurignano,
scaturita proprio dalla narrazione del letterato acrese, pubblicata nel
1890 e di cui ci occuperemo più avanti, non v'è alcun dubbio, come
puntualmente documentato, che i monaci Florensi intersecarono la loro
vicenda spirituale e temporale con il territorio di Laurignano e con le
zone contermini. Un documento del mese di agosto del 1460, sotto il
pontificato di Pio II (1458-1464) ci offre una ulteriore conferma dei
rapporti tra l'Ordine florense e Laurignano. Nel manoscritto papale è
attestato che un certo Bnobis, chierico salernitano, «providetur de
canonicatu et praebenda S. Salvatoris de Laurignano nuncupata ecclesaie
cusentin., (...) per duos solitae gubernari rectores, vac. per ingressum
Caroli Setarnio (Setario), canonici cusentin, in monasterium S. Iohannis
de Flore, Ord. Floren., dictae dioc.»[27]. Carlo Setario (1467-1470) fu
un accorto abate dell’Archicenobio di S. Giovanni in Fiore, eletto
vescovo di Isernia il 21 gennaio 1470[28].
Una sicura attestazione, per quanto riguarda il cenobio di Fiumefreddo,
è riferita alla vicina Dipignano. L’anno 1407 l’abate Pirro, assieme
alla comunità, nominò suo procuratore Pietro Caruso di Dipignano per
recuperare alcuni beni dell’abbazia[29]. Nell’atto, rogato nella
località della costa tirrenica, figurano anche il giudice Polito di
Tropea e i testi Nicola Vaccari e Andrea Catalano.
Il periodo a cavallo tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo segnò
uno dei momenti più nefasti nella storia plurisecolare della Chiesa: lo
Scisma d’Occidente (1378-1417), che vide contemporaneamente due o tre
papi autoproclamarsi legittimamente e scomunicarsi a vicenda, provocando
grande scompiglio e disorientamento in seno alla cristianità[30]. Nel
degrado generale che contrassegnò i decenni centrali del Quattrocento,
dopo Gioacchino da Fiore, un altro gigante fece la sua comparsa sulla
scena della storia calabrese: Francesco di Paola, il quale, sulla scia
del movimento francescano, fondò l’Ordine dei Minimi. Il taumaturgo
paolano cercò di scuotere le coscienze e di levare severa la sua voce
nel deserto della miseria morale e materiale che attanagliava la
regione, richiamando alla fraternità cristiana sudditi e governanti. Ma
le sue appassionate invocazioni rimasero inascoltate.
Nel 1454, per raggiungere Paterno, l’eremita paolano avrebbe seguito
l’itinerario che conduceva a Rende, lungo un percorso di dodici miglia
attraverso il passo della Crocetta sino a Cosenza e, da lì, lungo la
strada per Tessano, più interna rispetto alla via delle Calabrie[31]. Al
processo cosentino per la sua canonizzazione, mastro Domenico de
Virgopia ricorda che frate Francesco passava da «Zassano [Tessano]
Casale di Cusenza»[32], e quindi, obbligatoriamente, da Laurignano. Ma
se Francesco di Paola non ha lasciato alcun segno tangibile del suo
assiduo transito sul territorio di Laurignano, diverso è il discorso per
ciò che riguarda i suoi eredi. Un documento del notaio tessanese
Albisani, datato 17 aprile 1681, segnalato da Brich, ci dà notizia di
una proprietà posta nel luogo detto la Profenda di Laurignano, con un
valore di 70 ducati, messa all’incanto dai Padri del convento di S.
Francesco di Paola di Cosenza[33].
Con il basso Medioevo per i centri monastici cominciò un lento ma
inesorabile declino. Un insieme di fattori istituzionali, economici e
culturali ne decretarono praticamente la fine. Il tramonto della
dinastia degli Hohenstaufen ed il recupero del Mezzogiorno all’autorità
del papato, segnarono il decadimento degli ordini latini come i
Benedettini, i Cistercensi, i Florensi fedeli alla Corona, a favore di
quegli ordini mendicanti – Francescani e Domenicani in particolare –
assai più vicini alle aspettative delle masse popolari[34]. Fra ‘300 e
‘400 le insidie maggiori per l’universo monastico provenivano dalla
mancanza di disciplina, dall’isolamento, dalla commenda. In particolare
quest’ultimo istituto fu esiziale per i monasteri della regione, in
quanto prevedeva l’affidamento dei monasteri stessi a estranei che ne
godevano le rendite e poco si preoccupavano della vita della
comunità[35].
Sulla grave crisi che attraversò la Chiesa calabrese in quel periodo, le
affermazioni di Pietro De Leo appaiono quanto mai eloquenti: «molte sedi
vescovili erano vacanti o occupate da prelati abbastanza discutibili (…)
La precarietà della congiuntura economica consigliava il beneficio
ecclesiastico come una sicura fonte di sostentamento, e quindi un
rifugio sociale da perseguire senza tanti scrupoli (…) La disgregazione
istituzionale non favoriva certamente la tenuta del rigore morale nel
clero e nelle popolazioni. Simonia e soprattutto concubinato erano in
Calabria i mali più diffusi»[36].
La dissolutezza degli abati commendatari e dei monaci, in certi casi,
non conosceva limiti né pudore. Il Liber Visitationis di Atanasio
Calceopulo, una sorta di resoconto sullo stato dei monasteri calabresi,
ci ragguaglia puntualmente su ecclesiastici dagli atteggiamenti
discutibili, pubblici concubinari, litigiosi, ignoranti, i quali si
mostravano assai sensibili verso gli interessi temporali al di fuori del
monastero. Frate Giovanni di Altomonte e frate Jacobo del monastero di
S. Basilio di Castrovillari, per esempio, secondo le dicerie popolari,
vivevano esperienze peccaminose che sfociavano nella lascivia e
nell’indecenza, talvolta persino nella sodomia e nella perversione[37].
La Congregazione Florense, in fase di declino irreversibile già dagli
inizi del XIV secolo, intorno al 1570 si trasfuse nell’Ordine
cistercense, a cui era conforme nella sostanza e da cui si era in
precedenza allontanato. Stesso destino toccò ai monasteri femminili come
quello già citato di S. Maria dei Martiri di Mendicino, il quale, nella
prima metà del XVI secolo, venne accorpato al monastero cistercense di
S. Maria delle Vergini, di stanza a Cosenza.
Ma il monachesimo femminile in Calabria e in provincia di Cosenza – un
capitolo della storia ecclesiastica del Mezzogiorno tanto importante
quanto incredibilmente trascurato dalla storiografia – è un argomento
spinoso sul quale non intendiamo indugiare più di tanto, anche perché
fuori dalla nostra portata. In questa sede vogliamo semplicemente
accennare, sia pure lacunosamente e con consapevole modestia, ad alcuni
aspetti del fenomeno nella sua complessità, soffermandoci in particolare
su una personalità di spicco nel panorama delle esperienze monastiche
claustrali nella provincia cosentina: la badessa Margherita Conchi.
[1] Nella vasta e articolata produzione di studi su Gioacchino da Fiore,
si segnalano in particolare H. Grundmann, Gioacchino da Fiore. Vita e
opere, a cura di L. Potestà, Roma 1997; B. McGinn, L'Abate Calabrese
Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale, Genova 1990;
P. De Leo, Gioacchino da Fiore. Aspetti inediti della vita e delle
opere, Soveria Mannelli 1998; E. Buonaiuti, Gioacchino da Fiore. I
tempi, la vita, il messaggio, Cosenza 1984; A. M. Adorisio, I miracoli
dell'abate, Roma 1993; Storia e Messaggio in Gioacchino da Fiore – Atti
del 1° Congresso Internazionale di Studi Gioachimiti, Centro
Internazionale di Studi Gioachimiti, a cura di A. Crocco, S. Giovanni in
Fiore 1980.
[2] P. De Leo, Gioacchino da Fiore…cit., p. 17
[3] Cfr. Paradiso, XII, 140-141
[4] J. Le Goff, La civiltà dell'Occidente medievale, Milano 2000, p. 211
[5] P. De Leo, Gioacchino da Fiore…cit., p. 5
[6] F. Russo, Storia della Chiesa...cit., vol. II, p. 591
[7] Ibidem, p. 585
[8] R. Napolitano, S. Giovanni in Fiore monastica e civica. Storia
documentata del capoluogo silano, vol. I, Napoli 1981, p. 240, nota 37.
Cipriano Baraut (Per la storia dei monasteri Florensi, in «Benedictina»,
anno 1950, fasc. IV, pp. 241-268) ci segnala due Privilegia imperatorum
et regum nei quali si fa riferimento a questo tenimento: «Privilegium
eiusdem donationis terrarum laboratoriarum in tenimento Barani de
pertinentis Mendicini» e «Privilegium confirmationis omnium
privilegiorum abbatiae et signanter novae concessionis tenimenti quod
dicitur Bairani».
[9] Documenti Florensi. Abbazia di S. Giovanni in Fiore (a cura di P. De
Leo) in Codice diplomatico della Calabria, serie prima, tomo II, Soveria
Mannelli 2001, pp. 96-97
[10] R. Napolitano, S. Giovanni in Fiore monastica e civica…cit., p.
241, nota 36. Il Fiore, Della Calabria illustrata, Napoli 1743, alla
pagina 377 riporta l'elenco dei Monasteri Florensi fondati e Calabria e
fuori regione. Tra questi figura anche il monastero di S. Maria dei
Martiri di Mendicino.
[11] F. Russo, Storia della Chiesa in Calabria... cit., vol. II, p. 416;
dello stesso autore, Storia della Arcidiocesi di Cosenza, Napoli 1958,
p. 99, nota 115
[12] F. Russo, Storia della Arcidiocesi...cit., p. 122
[13] Il Russo (Storia della Chiesa in Calabria...cit., vol. II, p. 656,
nota 11) si è limitato a riprendere quanto pubblicato dai PP.
Passionisti Eugenio e M. Spagnolo, i quali, a loro volta, hanno attinto
dalla narrazione del Padula.
[14] Il letterato acrese, senza citare alcuna fonte, scrive
testualmente: «Questi illustri figli del nostro Gioacchino possedevano a
quella stagione sotto il titolo di S. Maria dei Martiri un Monastero in
Mendicino, terra a 3 o 4 miglia da Laurignano. Epperò un loro Padre
Arcangelo al 1351, (...) dovendo per suo bisogno condursi in Roma, pensò
di portar seco l'Immagine di Maria della Catena per procurarne una copia
in quella sede della Religione, e delle arti belle» (V. Padula, Storia
della portentosa Immagine di nostra Donna Maria della Catena
nell'Eremitaggio di Laurignano nell'Arcidiocesi di Cosenza, Cosenza
1890, pp. 8-9)
[15] F. Russo, Gioacchino da Fiore e le fondazioni Florensi in Calabria,
Napoli 1959
[16] C. Baraut, Per la storia dei monasteri Florensi…cit., pp. 241-268
[17] F. Russo, Storia della Chiesa in Calabria...cit., p. 646
[18] R. Napolitano, S. Giovanni in Fiore monastica e civica…cit., pp.
241-242, nota 37
[19] F. Russo, Storia dell'Arcidiocesi...cit., p. 578
[20] R. Napolitano, S. Giovanni in Fiore monastica e civica…cit., pp.
241-242, nota 37
[21] Ibidem, p. 240, nota 37
[22] C. Baraut, Per la storia dei monasteri Florensi...cit.,pp. 241-268
[23] P. De Leo, «Reliquiae» Florensi. Note e documenti per la
ricostruzione della biblioteca e dell'archivio del protocenobio di S.
Giovanni in Fiore, in Storia e messaggio in Gioacchino da Fiore, Atti
del I° Congresso internazionale di Studi gioachimiti, San Giovanni in
Fiore, 19-23 settembre 1979, Napoli 1980, p. 388
[24] C. Baraut, Per la storia dei monasteri Florensi…cit., pp. 241-268
[25] F. Del Buono, Fonte Laurato. Badia di Fiumefreddo, Amantea 1993, p.
23
[26] V. Padula, Storia della portentosa Immagine...cit.,
[27] RVC, vol. II, nr. 11610
[28] F. Russo, Storia dell’Arcidiocesi…cit., p. 135
[29] C. Baraut, Per la storia dei monasteri Florensi…cit., p. 268
[30] Cfr. F. Russo, Storia dell’Arcidiocesi…cit., p. 127
[31] P. Dalena, Dagli Itinera ai Percorsi. Viaggiare nel Mezzogiorno
medievale, Bari 2003, p. 238
[32] I Codici autografi dei processi cosentino e turonense per la
canonizzazione di S. Francesco di Paola (1512-1513), Curia Generalizia
dell’Ordine dei Minimi, Roma 1964, p. 54, f. 22v
[33] Si veda S. Brich, Regesto dei notai di Tessano, p. 172,
dattiloscritto conservato preso la Biblioteca del Santuario della
Madonna della Catena di Laurignano.
[34] G. E. Rubino – M. A. Teti, Le città nella storia d’Italia. Cosenza,
Bari 1997, p. 41
[35] F. Russo, Storia dell’Arcidiocesi…cit., p. 127
[36] P. De Leo, Mezzogiorno medioevale…cit., pp. 114-126
[37] M. H. Laurent – A. Guillou, Le ‘Liber Visitationis’ d’Athanase
Chalkéopoulos (1457-1458). Contribution à l’histoire du monachisme grec
en Italie meridionale, Città del Vaticano 1960, p. 151, 246-247
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